La storia delle teste false di Modigliani
Durante l’estate del 1984, in occasione del
centenario della nascita dell’artista Amedeo Modigliani
(12 luglio 1884), il Museo Progressivo di Arte Moderna di Livorno
decise di allestire una mostra in omaggio al suo cittadino più
illustre. L’esposizione aveva l’obiettivo di evidenziare
la breve e poco documentata carriera di scultore di Modigliani.
La cura del progetto venne affidata alla conservatrice del museo, Vera Durbé, con la collaborazione del fratello Dario, sovrintendente
alla Galleria d’Arte Moderna di Roma. Per arricchire la
mostra, inizialmente un po’ scarna e snobbata dalla critica
(solo quattro sculture arrivarono a Livorno), i due decisero di utilizzare delle scavatrici per
perlustrare il Fosso Mediceo, dove nel 1909, si dice, Modigliani
aveva gettato, sconfortato dal giudizio dei suoi concittadini
e in procinto di partire definitivamente per Parigi, alcune delle
sue sculture.
Il comune di Livorno non esitò a finanziare le ricerche,
sperando in questo modo di alimentare il gracile turismo della
bella città toscana. E così, davanti ad una sparuta
folla di curiosi, la benna della scavatrice iniziò la perlustrazione
del Fosso. Passarono alcuni giorni, ma delle sculture di Modigliani
nessuna traccia.
Quando tutta l’operazione sembrava aver assunto la forma di
un enorme spreco di denaro pubblico, ecco che l’ottavo giorno
qualcosa di sorprendente e di miracoloso calò sulla città
di Livorno: le acque torbide dei Fossi di Livorno avevano restituito qualcosa. Si trattava di una testa
di granito scolpita con tratti duri e allungati. Passarono poche
ore e la ruspa tirò fuori dal Fosso altri due blocchi di pietra
serena, che si rivelarono essere altrettante sculture, anch’esse
raffiguranti delle teste.
Per Vera Durbé e suo fratello non vi erano dubbi: le opere
appartenevano ad Amedeo Modigliani. Da quel momento in poi, la
città di Livorno venne letteralmente invasa da turisti
e dai media di tutto il mondo, con grande felicità da parte
dell’amministrazione comunale che in quell’impresa
si giocava la faccia. Dall’America al Giappone, curiosi,
giornalisti e critici d’arte si affollarono davanti al Museo
di Villa Maria, impazienti di ammirare gli straordinari ritrovamenti.
I grandi maestri della critica italiana, da Argan a Ragghianti
passando per Carli e Brandi, applaudirono l’impresa. L'unico a sostenere che queste tre sculture non solo erano false ma anche fatte da due mani diverse fu il Dott. Carlo Pepi, un grande collezionista d'arte di Crespina che nel 1988 entrò a far parte degli Archivi Legali Modigliani per volere della figlia dell'artista.
Il fratello di Vera Durbé, Dario, pubblicò a tempo di record (due settimane) un libro-catalogo dal titolo “Due Pietre Ritrovate di Amedeo Modigliani”, con tanto di foto e commenti di eminenti esperti.
In questo "elegantissimo" catalogo, si legge chiaramente che nei Fossi Reali di Livorno, si cercavano le teste che Modigliani, deriso dai commenti dei "colleghi" artisti livornesi, avrebbe gettato nel 1909, nonostante G. Razzaguta avesse assicurato che questo episodio fosse accaduto 7 anni più tardi. Ed ecco che nel catalogo viene dato poco rilievo alla pubblicazione di Razzaguta, al contrario di un libro da cui si attinge a piene mani e che viene considerato come un testo attendibile sul grande scultore rumeno Constantin Brancusi, dal titolo "The Saint of Montparnasse" scritto da un autore, anch'egli rumeno, Peter Neagoe (1881-1960). Nel catalogo "due teste ritrovate di Amedeo Modigliani" viene riportata una versione in lingua rumena del 1977 . Pubblicazione, quest'ultima, che si presenta SENZA sottotitolo.
L'edizione originale - molto più facilmente reperibile - in lingua inglese, è stata pubblicata a New York nel 1965, quindi cinque anni dopo la morte dell'autore e dodici anni prima della versione in lingua rumena riportata nel catalogo del 1984.
Il sottotitolo di questa prima edizione parla chiaro: "A NOVEL BASED ON THE LIFE OF CONSTANTIN BRANCUSI". "A novel": un romanzo! Un piccolo particolare omesso nel libro-catalogo del 1984. Strano, vero?
Dalle parole di Dario Durbé si poteva ben capire l’entusiasmo contagioso che si respirava in quel periodo: “Poche parole per descrivere un episodio e delle emozioni che avrebbero richiesto lo spazio di un intero libro. Mi sono sentito vicino a Modigliani, come se quella pietra avesse il potere di metterci in un contatto fisico e annullare i settantacinque anni che separavano il gesto amaro di lui dalla gloria del nostro ritrovamento”.
La giornata trionfale era prevista per domenica 2 settembre, nella sede della mostra, per la presentazione del libro che doveva consacrare definitivamente il valore mondiale della scoperta. Ma, come recita un antico detto, “non tutto ciò che luccica è necessariamente oro”. Infatti, mentre presso il Museo Progressivo di Arte Moderna di Livorno si preparavano i festeggiamenti e gli ultimi dettagli prima dell’inaugurazione, una notizia Ansa piombò su quella impresa come un fulmine a ciel sereno: tre studenti di Livorno, Pietro Luridiana, Pierfrancesco Ferrucci e Michele Ghelarducci, in un’intervista rilasciata al settimanale Panorama, dichiararono di essere gli autori della seconda Testa pescata del Fosso. Si tratta di un gioco, dissero i tre giovani, di uno scherzo ben riuscito ottenuto non con un poetico e filologicamente corretto scalpello, bensì con un semplice e prosaico trapano elettrico Black & Decker. A conferma di quanto appena detto, alla sua uscita il settimanale pubblicò alcune foto scattate dei tre studenti in un giardino nel momento stesso in cui compierono l’opera. Per fugare i residui dubbi, i ragazzi vennero inoltre invitati in televisione, durante la prima serata, per ripetere dal vivo il loro esperimento davanti ad oltre dieci milioni di telespettatori sintonizzati. In poche parole il loro fu il più grande scherzo del secolo!
Tutto ciò non scalfì tuttavia la resistenza di coloro
(i fratelli Durbé oltre che gran parte della critica) che
ancora crederono che le opere fossero il frutto dello scalpello dello
scomparso artista e che la trovata dei tre studenti non era altro che un
modo per farsi pubblicità. A suffragare la loro tesi vi erano
ancora le altre due Teste ritrovate, che in nessun modo e
per loro stessa ammissione i tre ragazzi avevano scolpito.
La trincea dietro la quale si proteggevano ad oltranza i sostenitori
dell’autenticità delle opere, crollò dopo una decina
di giorni, quando si venne a sapere che l’idea di farsi
beffa dell’altezzoso mondo dell’arte non era balzata
in testa solo a Luridiana, Ferrucci e Ghelarducci.
Si scoprì, infatti, che le altre due sculture erano opera di un
tale Angelo Froglia, ventinovenne, lavoratore portuale, promettente
artista. A differenza dei tre
studenti, che avevano compiuto l’impresa per scherzo, quasi
con innocenza, Froglia aveva motivazioni più profonde e complesse. “Non mi interessava fare una burla, – dichiarò ai
giornalisti l’abile falsario – lo scherzo dei tre
studenti è stata una variabile impazzita che mi ha intralciato
non poco. Il mio intento era quello di evidenziare come attraverso
un processo di persuasione collettiva, attraverso la Rai, i giornali,
le chiacchiere tra persone, si potevano condizionare le convinzioni
della gente. Inoltre io sono un artista, mi muovo nei canali dell’arte,
volevo suscitare un dibattito sui modi dell’arte e questo
mi è riuscito in pieno. La mia è stata un’operazione
concettuale, se volete in un certo senso è stata anche
un’opera d’arte, come quella di Christo che impacchetta
i monumenti, ma non avevo alcun intento polemico contro l’amministrazione,
né contro la città, né contro i critici d’arte
come singoli.. Volevo semplicemente far sapere come nel mondo
dell'arte l'effetto dei mass media e dei cosiddetti esperti possa
portare a prendere grossissimi granchi”. Non furono soltanto gli "esperti" di Modigliani a prendere un "granchio" in quel contesto, ma anche gli esperti incaricati dalla Soprintendenza di Pisa che eseguirono l'expertise sulle sculture ritrovate. Angelo, infatti, cosparse sul retro di una scultura del catrame (per pavimentazione stradale), prodotto ovviamente inesistente al tempo di Modigliani, tra l'altro trattasi di elemento galleggiante!
In effetti i cosiddetti
esperti erano ridotti al silenzio, incapaci di reagire e coperti
di ridicolo.
Tutto il mondo, dopo aver puntato gli occhi delle telecamere e
l’interesse sulla cittadina toscana in cui era avvenuto
il miracolo di un ritrovamento tanto atteso e desiderato, seppe
dunque della beffa di Livorno. Tutta la vicenda giovò,
e non poco, alla celebre marca di trapani elettrici Black &
Decker, che impostò la sua campagna pubblicitaria sulle
straordinarie potenzialità del proprio prodotto. Per quanto
riguarda il resto, la vicenda si concluse con le lacrime di Vera
Durbé e il sorriso divertito dell’opinione pubblica
italiana.
La famosa "beffa" del 1984" ebbe ripercussioni colossali nel mondo dell'arte, perché i più grandi critici d'arte italiani si coprirono di vergogna definendole autentiche anche dopo la confessione degli autori, i quali erano convinti che le loro opere ricavate con qualche ora di lavoro, sarebbero state subito riconosciute come false, e mai avrebbero pensato di innescare un caso internazionale. Come se non bastasse durante la "pesca miracolosa", Jeanne Modigliani, figlia dell'artista, venne trovata esamine nella sua abitazione parigina in circostanze anomale, proprio quando stava per venire a Livorno per dichiarare false le DUE sculture (quelle realizzate da Froglia) emerse dai fossi della cui esistenza era stata avvertita da una lettera anonima.
Nello scherzo caddero nomi molto illustri nel mondo della crtiica d'arte italiana come Jean Leymarie, Cesare Brandi, Enzo Carli, Giulio Carlo Argan e Carlo Ludovico Ragghianti, con loro altri storici dell'arte come Luciano Berti, Emilio Tolaini e lo scultore Pietro Cascella.
I ragazzi di cui si parla si chiamano Pietro Luridiana, Pierfrancesco Ferrucci, Michele Ghelarducci più il quarto amico Michele Genovesi che si assunse la responsabilità di andare da un avvocato e consegnare alle autorità le prove dell'iniziativa. Federico Zeri, che onestamente dichiarò di essere stato avvertito da una telefonata (una voce femminile) che gli preannunciava il ritrovamento di DUE false teste che sarebbero dovute riemergere dalle acque dei Fossi, scrisse un articolo per 'La Stampa' in cui giudicò le teste in questo modo. "Vere o false, le tre pietre sono pezzi di anodino livello così scarso che per esse non valgono neppure gli epiteti di giudizio qualificante. Se autentiche esse rappresentano per così dire la preistoria di Modigliani, che fece bene a disfarsene. Ma qui nascono, in folla, le considerazioni che suscita la vicenda. La prima è l’arroganza con cui la critica d’arte contemporanea impone al pubblico tutto ciò che essa considera valido e degno di nota".
Cosa disse Federico Zeri:
Il pubblico è considerato dai Vati e dai Druidi della critica come una massa amorfa, incapace di giudicare senza la guida di ‘color che sanno’, cioè di quella odierna varietà dei chierici di un tempo che sono i critici d’arte. Costoro adoperano un linguaggio oscuro, involuto, profetico, degno della Pizia e della Sibilla Cumana. Beninteso, dietro gli ispirati vaticini dei critici si muovono interessi commerciali: da almeno cento anni tutto il fenomeno dell’arte contemporanea riconosciuta dai critici è un colossale fenomeno di mercificazione e di speculazione, del tutto staccato dai reali interessi figurativi della società e delle masse. Guai se queste ultime si ribellano: esse debbono restare docili, subire l’arte. In realtà l’arte contemporanea è uno smaccato fenomeno di élite, ad uso e consumo degli intellettuali. Ed è deplorevole che la corrente critica di ispirazione marxista si sia lasciata irretire da questi e non li abbia combattuti come meritano; a meno che l’autentica arte moderna destinata alle masse non vada riconosciuta nel cinema, nei fumetti, nei manifesti pubblicitari. L'episodio inaudito di Livorno sollecita un'altra considerazione, ed è la facilità con cui si riesce a falsificare l'arte moderna. Che una o più delle teste ripescate abbiano potuto suscitare un tale clamore in quanto sospettate false, tale ipotesi, presa sul serio è di per sé una prova della vacuità di quei prodotti. Il filo tra vero e falso viene a fondersi in un unico calderone in cui, come in talune zuppe di verdura, tutto è buono, tutto fa brodo."
In seguito, nel 1993, Angelo Froglia si decise a parlare, svelando nuovi particolari e facendo dei nomi che non aveva fatto nel 1984 quando disse di aver agito da solo. Grazie a queste rivelazioni, e alla denuncia di Giuseppe Saracino e Carlo Pepi nei confronti di Vera Durbé che attraverso i giornali continuava a dire che le sculture "pescate" dai fossi erano autentiche, venne riaperto il caso dalla magistratura che avviò un'inchiesta che investì gli ex assessori e dipendenti del Comune di Livorno.
Come spesso accade in Italia, tutto cadde in prescrizione per decorrenza dei tempi..
Fu durante la mostra di Villa Maria che Piero Carboni capì che le sculture in suo possesso, probabilmente, potevano essere
state scolpite da Amedeo Modigliani.
Ma questa è un'altra storia..
Maurizio Bellandi