Estate 1909
Il limitatissimo epistolario di Modigliani, sconfortante per numero e qualità di documenti sopravvissuti (soprattutto se pensiamo alle notevoli competenze letterarie dell'artista livornese e al grande numero di lettere che devono essere andate irrimediabilmente perdute e che avrebbero illuminato tanti momenti oscuri del suo percorso), presenta un solo numero riferibile all'estate del 1909, trascorsa in Toscana: si tratta di una lettera inviata da Livorno, il 5 settembre, all'amico e mecenate Paul Alexandre, nota dal 1993. Si parla, con incertezza, del desiderio di esporre al Salon d'Automne i dipinti realizzati durante questo primo soggiorno italiano (e cioè sicuramente il Mendicante di Livorno, una tela capace di testimoniare l'impatto sempre vivo e vitale della fondamentale retrospettiva di Cézanne al Salon del 1907), della felicità di ritornare a Parigi, “rimesso a nuovo, dal punto di vista fisico e vestimentario” grazie alle amorevoli cure dei familiari livornesi, delle emozioni provate visitando Pisa e del desiderio di vedere anche Siena, della cartolina ricevuta dal pittore Henri Le Fauconnier (che viveva in rue du Delta 7 e che proprio nel 1909 aveva dipinto il Ritratto del poeta Jean Pierre Jouve, un dipinto in grado di colpire l'artista livornese), contenente “quattro righe assolutamente straordinarie di sciocchezze su Brancusi che mi hanno fatto molto piacere”, e del suo rapporto di grande affetto verso “quell'uomo” (si sta parlando, con ogni probabilità, ancora di Brancusi), chiedendo a Paul Alexandre, pur molto preso dalla professione medica, di portare i suoi saluti allo scultore rumeno. La lettera si chiude con la promessa di essere di nuovo a Parigi prima della fine del mese.
Il 28 maggio 1909 Jean Alexandre, scrivendo al fratello Paul a Vienna per tenerlo informato su quanto accadeva a Parigi e nella cerchia di rue du Delta, aveva annunciato la partenza di Modigliani, perennemente senza un soldo in tasca: per fortuna va a passare tre mesi in Italia, luglio, agosto e settembre. Gli farà bene sotto tutti i punti di vista. Infatti tutte quelle esposizioni dove va non gli servono a nulla e non fanno che accrescere quella instabilità che hai potuto notare prima della tua partenza.
Poco altro di sicuro sappiamo su questo soggiorno estivo a Livorno del 1909: le fonti biografiche, da prendere ovviamente con le molle considerando la leggenda che ha precocemente avvolto e oscurato le vicende della vita dell'artista, Modigliani dovette trascorrere il tempo in famiglia (si ricorda che avrebbe aiutato la zia Laura a scrivere articoli di filosofia: d'altronde la madre pare si vantasse di una leggendaria parentela addirittura con il grande Spinoza) e tornando a visitare quell'immenso repertorio di forme che le città d'arte della Toscana potevano offrirgli. Livorno, che costituiva l'eccezione di una città toscana senza musei di arte antica (anche la madre ricorda che il ragazzo quattordicenne parlava continuamente di quadri intravisti in riproduzione, ché a Livorno non ce n'era nessuno. Uno dei suoi incubi: perdeva il treno che doveva condurlo a Firenze a vedere gli Uffizi. Parlò del pittore Segantini che allora aveva grande successo, e tutto con tale insistenza che sua madre, che lo curava, decise di accontentarlo a ogni costo”), poteva tuttavia offrire a Modigliani due grandi emozioni figurative: un capolavoro assoluto della storia della scultura italiana, come i Quattro Mori del Tacca, e un'antologia di opere di Giovanni Fattori, il grande maestro macchiaiolo conosciuto di persona da ragazzino nello studio di Micheli e scomparso l'anno precedente.
Non abbiamo nessuna conferma che Modigliani, in questo primo soggiorno a Livorno, abbia riallacciato particolari rapporti con i suoi amici artisti frequentatori del Caffè Bardi i quali, va ricordato, non avevano mosso un passo in avanti da quando li aveva lasciati, per cui sotto questo aspetto non dovevano interessare più di tanto al giovane Modigliani appena rientrato da una città come Parigi, epicentro delle diverse correnti artistiche e culturali del '900.
D'altronde il cézannismo intransigente che in questo momento caratterizza la pittura di Modigliani, anche quella sicuramente realizzata nell'estate livornese, come il Mendicante di Livorno, non trovava sponde, in questi anni, nella città labronica: solo Oscar Ghiglia, ma qualche anno più tardi e sotto l'influsso di un mecenate come Gustavo Sforni (che di Cézanne, nella sua collezione fiorentina, possedeva un capolavoro, il Ritratto di Victor Chocquet), poteva intessere un fecondo dialogo con la pittura del maestro provenzale. Ma a quelle date Modigliani avrà ormai superato Cézanne e definito, dopo la parentesi dell'attività scultorea conclusasi nel 1913, un proprio linguaggio autonomo e originalissimo.
L'unica altra opera sicuramente realizzata a Livorno, come ricordato da Paul Alexandre (appuntando a matita sul verso del foglio Premier voyage en Italie), è uno splendido ritratto femminile: anche in questo caso non parrebbe possibile cogliere alcun rapporto con ciò che si dipingeva a Livorno in quel momento; semmai un dialogo a distanza con i ritmi morbidi e avvolgenti della pittura di Matisse.
Ma nell'estate del 1909 trascorsa a Livorno, prestando fede ai ricordi di Roberto Simoncini detto Solicchio (la figura che posò come modello per il Mendicante di Livorno, l'unico dipinto come si è visto riportato a Parigi dal soggiorno italiano) tramandati da Piero Carboni, Modigliani doveva essersi esercitato, più che nella pittura o nella grafica (e in effetti sorprende che dei tre mesi italiani siano sopravvissuti con sicurezza solo un dipinto e un disegno), sopratutto nell'arte scultorea: avrebbe infatti abbozzato e in parte realizzato cinque teste, i suoi primi veri tentativi plastici, tre delle quali fortunosamente sopravvissute. Opere prime in grado di delineare una preistoria dell'attività scultorea di Modigliani, ancora alla ricerca di una propria autonomia linguistica, capaci quindi di preannunciare solo in parte i capolavori originalissimi che saranno realizzati negli anni dedicati esclusivamente alla scultura, rivelando piuttosto l'influsso, tecnico ma anche espressivo, di Brancusi, conosciuto all'aprirsi del 1908, grazie a Paul Alexandre, e frequentato con passione ed intensità proprio nei mesi che precedono questo primo soggiorno in Italia (come documentato anche dai ritratti dedicati da Modigliani allo scultore, o dal bellissimo carboncino eseguito subito dopo questo soggiorno).
Anche se Paul Alexandre sottolinea a ragione la distanza della ricerca di Brancusi da quella di Modigliani, le sculture eseguite a Livorno nell'estate del 1909 rivelano, in realtà, come in questa fase aurorale della scultura di Modigliani il modello offerto da Brancusi abbia svolto un ruolo nodale, decisivo nell'orientare le sue prime scelte plastiche (difficile risulta invece oggi valutare il ruolo di Maurice Drouard, per la difficoltà di rintracciare opere di questo periodo; mentre l'ammirazione per i raffinati bronzi di Elie Nadelmann, testimoniata sempre da Paul Alexandre, si spiega pensando alla fascinazione provata da Modigliani per tutto ciò che sembrasse orientato verso la semplificazione e la depurazione della forma).
Per comprendere le prime prove scultoree sopravvissute di Modigliani, realizzate a Livorno nell'estate del 1909, bisogna quindi ripensare all'attività di Brancusi nel biennio immediatamente precedente: ebbene proprio in questo periodo, tra la fine del 1907 e i primi mesi del 1909, lo scultore rumeno stava attraversando una fase decisiva del suo sviluppo stilistico, tagliando decisamente i ponti con la tradizione rodiniana e avviandosi verso quel linguaggio purificato, neoplatonico, che lo caratterizzerà in modo sempre più netto a partire dal 1910.
Le opere sopravvissute e quelle perdute o disperse (ma documentate dalle bellissime fotografie realizzate dallo stesso scultore) ci fanno toccare con mano un momento di vera e propria crisi primitivistica vissuta con foga e passione, concretizzatasi in risultati talmente radicali e ostentati da non trovare confronti nell'opera successiva di Brancusi: una sorta di tabula rasa di tutto ciò che era stato appreso negli anni precedenti, sotto l'influsso di quelle fonti primitive che stavano sempre più furoreggiando negli ambienti d'avanguardia parigina, probabilmente stimolato anche dall'estremismo plastico di un'opera provocatoria come la Figura accovacciata realizzata da André Derain nel 1907.
Se ancora Il Supplizio, nel dichiarato omaggio al patetismo del Laocoonte, rivela un legame strettissimo, anche nel suo carattere frammentario, con le coeve ricerche di Rodin (il cui studio Brancusi aveva frequentato tra il marzo e l'aprile del 1907), Preghiera, sempre del 1907, mostra una brusca sterzata di rotta: la ricerca di un'assoluta essenzialità nella trattazione dei volumi e nella rinuncia ad ogni esteriore dettaglio descrittivo sembra, in questo caso, ispirata a quelle fonti medievali a cui aveva attinto anche il Gauguin bretone, quasi che Brancusi, nel concepire questa figura funeraria, avesse voluto ispirarsi ai protagonisti di una deposizione lignea romanica. Sarà comunque il Bacio, elaborato tra il 1907 e il 1908 come una vera e propria dichiarazione polemica di definitiva presa di distanza dal celebre Bacio di Rodin, a dichiarare la velocità bruciante con cui Brancusi si era calato in questo percorso, alla ricerca di fonti sempre più primitive capaci di rigenerare l'arte scultorea novecentesca: se la tecnica scultorea del taglio diretto della pietra e il rispetto ostentato, provocatorio, della forma cubica del blocco rimandano all'opera di Derain sopra citata, la resa geometrica, puramente lineare, dei dettagli anatomici sembra trovare altri modelli: quegli assorti idoli cicladici che, negli anni seguenti, tanto affascineranno anche Modigliani.
Sempre del 1907 è Testa di ragazza, probabilmente la prima scultura in pietra realizzata con l'intaglio diretto, ispirata ad una maschera Fang in proprietà di Derain, dove Brancusi risulta affascinato dall'idea di accentuare le caratteristiche primitive presenti nel modello africano: colpiscono infatti l'esibita asimmetria del volto, con quei tratti somatici che sembrano quasi ferite inferte su superfici plastiche mosse da una logica assolutamente antinaturalistica. Questo percorso di regressione stilistica, in una sorta di sperimentazione delle diverse fonti primitive che affascinavano in quegli anni artisti d'avanguardia come Picasso, Matisse, Epstein, Derain, culmina l'anno successivo nella La Saggezza della terra (Bucarest, Muzeul National de Art al Romaniei) e nella Figura antica (Chicago, The Art Institute), dove le suggestioni delle figure egiziane ammirate al Louvre si coniugano con una riflessione sulle sculture di Gauguin studiate alla retrospettiva parigina del 1906, mentre la Danaide, sempre del 1908, se nella resa corrosa delle superfici sembra voler evocare un reperto archeologico aggredito dal tempo e dagli elementi, rivela un gioco più raffinato di volumi. Del 1909 è invece un'altra opera perduta di Brancusi, La Baronessa R. F. (Testa di donna), nuovamente in competizione con le maschere africane. In questo vero e proprio capolavoro il ritratto della baronessa Renée Frachon, offre l'opportunità per definire un volto dove la clamorosa asimmetria degli occhi, definiti e accecati da tratti brutali, e la trattazione scabra, a massa ruvida, della capigliatura contrastano con la definizione più raffinata, levigatissima, della superficie dell'epidermide. Se a questa fase di aggressivo e sperimentale primitivismo sembra appartenere anche la ruvida Cariatide che poi Brancusi utilizzerà, a contrasto, come basamento per una delle sue opere più pure ed astratte (il marmo candido della Maiastra intagliata tra il 1910 e il 1912), è nel corso del 1909, probabilmente a partire proprio dai mesi in cui Modigliani si allontana da Parigi per recarsi in Italia, che comincia a svilupparsi una nuova fase della ricerca dello scultore rumeno, in un nuovo brusco mutamento di rotta: la Musa addormentata (1909-1910) è infatti un'invenzione dove il primitivismo dei due anni precedenti sembra placarsi in schemi purificati e perfetti, come se, dopo un momento di violenta e distruttiva regressione quasi al grado zero della scultura, ora Brancusi fosse stato folgorato da un nuovo obiettivo, quello di mettere a punto una lingua astratta ed eterna, in una ricerca che lo condurrà a fissare in schemi definitivi gli archetipi stessi delle forme.
Modigliani, nel corso del 1908 e nei primi mesi del 1909, prima di partire per l'Italia, deve avere condiviso questa drammatica crisi linguistica attraversata dall'amico rumeno, osservando da vicino la sua affannosa ricerca di fonti figurative primitive che consentissero anche alla scultura, così come era avvenuto negli anni immediatamente precedenti alla pittura, un nuovo inizio. Alcuni disegni appartenuti a Paul Alexandre e resi noti solo nel 1993 confermano che anche l'artista livornese, pur continuando nella pittura la sua ricerca di cézanniana ortodossia, abbia condiviso le ragioni di questa crisi primitivistica di Brancusi: si veda, ad esempio, un disegno teatrale databile probabilmente intorno al 1908, raffigurante un Personaggio del circo alla parata, su un fondo di drappeggi con nappe, goffo e impacciato come un abbozzo infantile (tale da far quasi presentire le celebri opere di Carrà del 1916), ma con un volto dove già compaiono alcune stilizzazioni che diventeranno tipiche, qualche anno più tardi, delle classiche sculture di Modigliani; oppure la cariatide a sanguigna quasi sicuramente del 1908 (Donna vestita con un perizoma, che avanza con un oggetto sul capo), dove la schematizzazione geometrica del corpo a masse plastiche contrasta con la definizione puramente lineare del volto, concepito come una maschera primitiva confrontabile, per la definizione puramente lineare dei tratti somatici, con la testa della Saggezza della terra di Brancusi.
Tornando a parlare delle teste livornesi, va tenuto conto che il nome di Modigliani era completamente sconosciuto a Livorno, tanto che la morte dell'artista passò completamente inosservata tra gli "amici" del caffè Bardi e a Livorno in generale, dove nessun tributo gli venne conferito e le cose non cambiarono neanche con il passare del tempo, basti pensare allo scarsissimo successo che riscosse la mostra, seppur modesta, allestita nel 1984 a Villa Maria per il centenario dalla nascita dell'artista.
Per cui è difficile avere il sospetto che le tre teste mostrate da Solicchio a Piero Carboni nel 1932 fossero state realizzate alla maniera di Modigliani da un anonimo scultore livornese, oppure come omaggio alla riscoperta grandezza dell'artista, così come appare impossibile non porsi la domanda su chi avrebbe inciso, su una qualsiasi opera, in quel periodo storico, un simbolo come la stella di David. Altra cosa da tenere presente è il fatto che un eventuale falsario non avrebbe mai datato le sculture 1909, questo perché le pubblicazioni scritte dagli autori livornesi (Jeanne Modigliani compresa), non parlavano di un Modigliani scultore nel 1909, ma durante l'ultimo viaggio dell'artista in Italia (in cui collocarono l'episodio delle 'teste gettate nei fossi'), quindi l'ipotetico falsario avrebbe sciaguratamente sbagliato datazione, visto che i sopracitati autori collocarono Modigliani a Livorno tra il 1915 e il 1916. E' importante a questo proposito ricordare che l'ultimo soggiorno dell'artista nella sua città natale ha avuto luogo nel 1913, e anche di questo ne abbiamo certezza soltanto dal 1993 (quindi due anni dopo che le sculture del Carboni furono rese note alla stempa) grazie ai documenti pubblicati nel catalogo della mostra veneziana con le opere provenienti dalla collezione Paul Alexandre. Ma al di là della scarsa logicità di un'ipotetica contraffazione (perché mai il proprietario, un semplice e modesto venditore di frutta e verdura, le avrebbe fatte realizzare e poi tenute nascoste per anni?), mi sembra che sia proprio un'analisi formale, spassionata e il più possibile oggettiva, delle tre sculture a sgombrare il campo da questi sospetti. Da un artista dedito a realizzare degli omaggi alle sculture di Modigliani, e tanto più da un falsificatore impegnato a produrre delle opere con l'intento di ingannare un eventuale collezionista, ci si sarebbe aspettati un risultato molto vicino, tecnicamente e stilisticamente, ai capolavori più celebri e accreditati dell'artista (e in particolare ad una data, intorno al 1930, quando la scultura di Modigliani era assolutamente sconosciuta a Livorno). Inoltre un falsario non farebbe mai un qualcosa di atipico rispetto allo stile dell'artista che intende copiare, per esempio i nasi delle sculture riconosciute come autentiche (e non), hanno la medesima caratteristica della forma del naso (triangolare) così come nei disegni di cariatide, mentre quelle salvate da Piero Carboni presentano un naso metà esagonale, di cui abbiamo un solo riscontro ravvisabile in un disegno inedito al pubblico prima della mostra di Venezia del 1993, abilmente riconosciuto da Carlo Pepi all'inaugurazione insieme ad altri due le cui analogie con le teste livornesi appaiono più che tangibili.
Niente di tutto ciò si coglie, invece, nelle tre teste livornesi, dove i rapporti con le opere note e conclamate, pur evidenti, rimangono come allo stato di promessa: pensare, cioè, che un geniale falsificatore, per lo più precocissimo, di Modigliani si sia posto il problema di ricostruire una sua ipotetica preistoria scultorea alla data 1909 sembra estremamente implausibile, quasi impossibile.
Il problema dei falsi Modigliani va affrontato senza timori o reticenze: i riscontri e le testimonianze raccolte confermano che le tre teste siano state avvistate per la prima volta a Livorno nel 1932, ed è quindi assai difficile ipotizzare che possano essere state prodotte da un abile e precoce contraffattore delle sculture di Modigliani. L'artista livornese fu molto falsificato negli anni, in particolare come pittore, già all'indomani della sua morte e del primo lancio commerciale delle sue opere, ma nei decenni successivi anche come disegnatore e scultore. Un caso esemplare di una falsa (?) scultura di Modigliani capace di trarre in inganno gli esperti fino a pochissimo tempo fa è costituito, ad esempio, dalla testa (1911-12) in collezione privata di Parigi inclusa nel canone di Ceroni, accettata anche nella recente mostra di Rovereto e indicata come una falsificazione da Flavio Fergonzi solo nel 2013, oppure la Ceroni XIV, dichiarata immediatamente falsa da Carlo Pepi appena ebbe modo di vederla esposta nella mostra del centenario nel 1984.
Carlo Pepi è studioso e collezionista di arte italiana del diciannovesimo e ventesimo secolo. Come tale è convinto al di là di ogni dubbio dell'appartenenza a Modigliani delle tre teste. Non per la prima volta il dr. Pepi reagisce contro le contraffazioni che si risolvono nell'immiserimento del patrimonio artistico nazionale e nella confusione, spesso per bassi scopi mercantilistici, riguardo alle opere di molti artisti (Modigliani sotto questo aspetto è uno dei più bersagliati). Per cui il fatto che Carlo Pepi abbia autenticato le tre sculture non è certo un dato trascurabile, almeno per coloro che sono a conoscenza della sua storia e delle battaglie che ha portato avanti (purtroppo da solo), e per fortuna porta avanti tutt'ora, contro una continuata proliferazione di opere falsamente attribuite al grande artista livornese che sembra non avere fine, almeno qui in Italia. Battaglie che lo hanno sempre visto vincitore.
Inoltre Pepi ha dimostrato una notevole sicurezza e competenza ad aver autenticato quelle sculture nel 1991. Innanzitutto perché ancora non erano venute fuori tutte le prove, testimonianze, o la grafia di Modigliani su un libro salvato insieme alle teste, ma anche perché i riscontri storici che confermarono i racconti di Piero Carboni, arrivarono nel 1993 con la mostra di Venezia. Seguirono Pepi schierandosi per l'autenticità delle tre teste, personaggi illustri nel mondo dell'arte, come Wayne Vesti Andersen le cui credenziali sono a dir poco impressionanti, così come James Beck, e il nostro Enzo Carli.
Tutto ci porta concordemente a pensare di trovarci di fronte a preziose reliquie, fortunosamente sopravvissute, di una fase aurorale della pratica scultorea dell'artista, tentata come esperimento nella lunga estate livornese del 1909 sotto lo stimolo delle opere che Brancusi aveva realizzato nei mesi precedenti alla presenza di Modigliani: una fase sperimentale, in cui l'artista, dopo l'interesse mostrato per la scultura già nel 1902 (vedi lettera a Romiti spedita da Pietrasanta), avrebbe finalmente osato, ancora sostanzialmente da inesperto, prendere in mano mazza e scalpello e aggredire il blocco di pietra; una fase ben presto superata, dopo un momentaneo ritorno alla pittura in vista del Salon des Independants del 1910, nella serie di opere, sempre più magistrali, realizzate nel biennio 1911-1912.
Opere prime, quindi, ancora lontane da alcuni capolavori degli anni seguenti (teniamo anche conto che le datazioni delle singole sculture risultano incerte), ma comunque straordinariamente interessanti per ricostruire la preistoria di uno dei più originali scultori del Novecento.
Maurizio Bellandi