Modigliani visto da Renato Guttuso

«I miti hanno oscurato la verità della sua arte» (Il Tirreno 2/09/1985 - di Aldo Santini)

VELATE (Varese), settembre 1985. Ho intervistato Renato Guttuso nella sua villa lombarda, immersa nel silenzio, mentre stava finendo una grande composizione ispirata alla «Primavera» del Botticelli. Ogni estate Guttuso, qui a Velate, dipinge l'opera più importante della sua annata artistica. Qui ha creato «Vucciria», qui «I funerali di Togliatti», «L'eruzione dell'Etna», «Il caffè Greco», «Spes contra spem», «Van Gogh nel bordello di Arles». Qui ha realizzato i suoi «omaggi» ai pittori celebri del passato: Cranach e Antonello da Messina, Picasso, De Chirico, Durer, Gèricault. Mi accompagnavano i fratelli Guido e Giorgio Guastalla della Graphis Arte di Livorno. Guttuso ha stretti rapporti di lavoro con i Guastalla. Alla mia presenza ha firmato una tiratura della irto tratta dal dipinto «Vucciria», e curata personalmente da lui, che i Guastalla esporranno insieme a opere di Marini, di Manzù e dello stesso Guttuso, nel loro stand del Salone internazionale dei mercanti d'arte moderna a Venezia, a palazzo Vendramin. Tre livornesi davanti a Guttuso, che non ha mai nascosto di avere in uggia l'«asciuttezza» della grande pittura toscana. «Io sono cresciuto come pittore guardando al Caravaggio e al Seicento. Io e i miei compagni di strada degli Anni quaranta non volevamo essere asciutti, severi, primitivi. Volevamo essere foschi, sensuali, colorati, espansivi, estroversi...». Ce n'erano, dunque, di argomenti da affrontare, magari con una punta di polemica. E dopo Botticelli, che non è certo asciutto né primitivo, siamo giunti fatalmente a Modigliani. Qui Guttuso ha dichiarato: «per me i maggiori artisti italiani del Novecento sono stati Boccioni, Modigliani e De Chirico».

Modigliani: intervista a Renato Natali

Quali stima di più?
«De Chirico, senza alcun dubbio. E stato il più grande e il più trascurato, in Italia. Mai un premio importante. Mai un riconoscimento ufficiale. La Biennale di Venezia ha cercato di umiliarlo in tutti i modi. Quando compì novant'anni si liberò un posto di senatore a vita, a Palazzo Madama, e io proposi a Pertini di dargli il laticlavio. Pertini mi rispose a picche».
E di Modigliani cosa dice?
«Troppo personaggio, troppo protagonista. Ha creato il suo mito da vivo. E questo, secondo me, gli ha nuociuto».
Nessuno, allora, può capire Modigliani meglio di lei, maestro, che ha saputo essere personaggio e protagonista più di ogni altro pittore della sua epoca. Personaggio con la pittura e con la politica. Modigliani, almeno, la politica non sapeva cosa fosse... Guttuso sorride. E lascia dire. Non raccoglie la battuta polemica. A Velate c'è una pace morbida come il verde del prato che circonda il suo studio. E poi siamo tra buoni amici. Guttuso si rifà a quando ha scritto anni addietro:
«Passati gli entusiasmi della giovinezza, quando cominciai a guardare la pittura cercando di capirci dentro qualcosa, qualcosa che mi servisse, ho amato sempre meno la pittura di Modigliani. I primi quadri di Modigliani che vidi furono il nudo rosso di Feroldi, poi passato nella collezione di Mattioli, il ritratto della Czechowska di Valdameri poi di Angeli Frua, e l'autoritratto di Della Ragione, poi nel museo di San Paolo. Nelle varie fasi che hanno attraversato i miei interessi c'è sempre stato qualche motivo che mi ha impedito di amarla, la sua pittura».
Di Modigliani lo disturbava il mito? Lo disturbava il clima della sua Parigi leggendaria?
«lo ho sempre pensato che, spogliato dalla leggenda e fuori del clima di Parigi, fuori dal momento egemonico, irradiante, della città, di Parigi, il caso Modigliani avrebbe avuto proporzioni diverse. Sa, io penso a Scipione, a Boccioni, a Gino Rossi, ed anche a Martini e a Rosai. Chi sa nulla di loro nel mondo? Per Boccioni ci sono voluti più di quarant'anni perché qualche museo europeo o americano attaccasse al muro un suo quadro. Cosa ne sarebbe stato di Modigliani se fosse morto a Venezia o a Firenze? Nessuno fuori d'Italia conosce Dino Campana, un poeta che ha qualche affinità con Modigliani, ma è di lui tanto più profondo. Dicevo, insomma, che Modigliani non sarebbe stato Modigliani senza Parigi e senza i problemi di pubblicità e di mercato connessi a quella egemonia. Questioni, s'intende, non tutte esterne e pratiche, ma anche esterne e pratiche».
Certo, ma se è vero che Modigliani ha saputo costruire il mito della sua pittura e del suo personaggio, è altrettanto vero che da vivo non ne ha goduto alcun beneficio. E poi Parigi ha laureato grandi pittori che non erano dei personaggi.
«Tra la cronaca di una vita e le opere può, e può non esserci, coerenza. Prendiamo il caso di Van Gogh e quello, opposto, di Cézanne, la cui vita è stata così scarsa di cronaca, così priva di spettacolo, e la cui opera, al contrario, è così sconvolta e carica di conseguenze rivoluzionarie. Non sempre lo svolgersi dei giorni coincide con la biografia interiore, con le interne angosce, le depressioni, le esaltazioni cui è connesso il lavoro creativo. E inutile insistere su cose tanto ovvie».
Ricordo che lei criticò molto un libro su Modigliani pubblicato in Francia: era di Claude Roy per le edizioni Skyra.
«Trovai giuste alcune osservazioni di Roy quando immagina di ricostruire la biografia di Modigliani solo dall'esame critico dei quadri e della loro cronologia. Da tale esame deduceva ragionevolmente che il decorso della sua pittura autorizzerebbe lo storico privo di documenti biografici a pensare che gli ultimi anni della vita del pittore livornese fossero trascorsi serenamente in 'qualche eremitaggio', cito a memoria, 'nei dintorni di Firenze'. Ma non ero d'accordo sulla sua conclusione...».
Come concludeva, Claude Roy?
«Diceva suppergiù così: 'Amedeo Modigliani è vissuto per morire e ha dipinto per vivere... Mano a mano che egli snodava con furore la trama dei suoi giorni, annodava con rigore la trama del suo genio... La sua vita fu un suicidio convulso e la sua opera la conquista di una pensosa immortalità'. Io dico che non è così. Modigliani uccise se stesso ma uccise anche la sua pittura. Il terreno di unità stilistica su cui egli costruisce la sua personalità non è elaborato attraverso una ricerca, e non perviene mai alla classicità assoluta, all'alto stile, in cui le vicende dell'uomo si fanno silenzio, visione profonda e serena, scoperta duratura di realtà. Proprio nei quadri degli ultimi anni, la sua unità stilistica è in massima parte dovuta alla ripetizione di un modulo. E perciò più manieristica, più stilizzata. Perde sempre più la capacità della linea, incisiva, dei quadri del 1913, del 1915, del 1916».
Una critica analoga è stata provocata dalla grossa mostra che Parigi ha dedicato a Modigliani nel 1982.
«Vede, si è molto scritto sul sentimento febbrile dalla pittura di Amedeo Modigliani. Devo dirlo: a me la pittura di Modigliani sembra molto scomposta. Il pathos delle sue figure, così come il suo disegno, è un po' languido, ma raramente febbrile. Inoltre va notato che la pittura di Modigliani è assai più eccitante e inquieta sulle tele del primo periodo parigino, ecco il punto, allorché il suo organismo non era ancora devastato dal male e dall'alcool, che nelle opere dipinte negli ultimi anni...»
Comunque è da parecchio tempo che si cerca di smitizzare la figura di Modigliani, sfrondandola della leggenda, senza però riuscirvi: segno che il mito non è di panna montata.
«Mah, è difficile dare un giudizio. Al processo di smitizzazione molto vi ha contribuito la figlia Jeanne con il suo libro 'Modigliani senza leggenda'. E apparentemente ha condotto l'impresa con più spietatezza degli altri. Apparentemente, dico, perché nella ricerca di Jeanne della verità storica, vedo un atto di pietà filiale. Alla base di tutto c'è una verità fondamentale. Ed è questa: i vari scrittori come Francis Carco non hanno fatto che arricchirla di piccole invenzioni romantiche. Io credo che tutte le invenzioni create su Modigliani non servano a vedere e a capire meglio la sua pittura. Il mito è già nella pelle della pittura di Modigliani, pro e contro. Cerchiamo allora di aggiustare la ricostruzione dell'ambiente culturale dove è cresciuto Modigliani e di sfrondarlo dal mito. A suo tempo proposi di rivedere la tesi riguardante l'influenza di Tino di Camaino. O la proporzione tra il peso dell'influenza parigina, Cézanne, Picasso, arte negra, e la nostalgia del pensiero verso Simone Martini. O se pensava in lui più Apollinaire o più D'Annunzio» .
Si è parlato fin troppo dell'influenza che Tino di Camaino avrebbe avuto su Modigliani.
«Su questa influenza ci sarebbe molto da dire. Tutti hanno accettato il clichè di un Modigliani grande pittore francese, salvandone l'italianità attraverso la citazione obbligatoria di Simone Martini, di Botticelli e di Tino di Camaino. Questo è davvero fare critica di tipo fantasioso. Se si guardano le sculture, che pure servono di regola da elemento decisivo dell'influenza di Tino, ci si accorge che il riferimento è del tutto arbitrario. Che cosa c'entra la testa del Víctoria Albert Museum, esposta alla mostra di Livorno del 1984, con Tino di Camaino? Io ci vedo soltanto i negri, i gotici, il liberty. Modigliani avrebbe conosciuto l'arte di Tino, rimanendone scosso, nel 1901, durante un soggiorno a Napoli. L'anno dopo affermò di sentirsi soprattutto scultore. Ma le sue prime sculture *conosciute, quelle del 1910-11, non hanno alcun rapporto con Tino di Camaino...».
Il mito si dilata. Ma troppo spesso per colpa della critica.
«Secondo me sulla scultura di Modigliani influì l'arte negra, soprattutto attraverso l'utilizzazione che delle statuette giunte dalla Costa d'Avorio andavano facendo Picasso e Derain. Io credo che l'influenza di Derain non sia da sottovalutare. E naturalmente non va dimenticata l'influenza di Brancusi, l'amico romeno di Modigliani. Per concludere: è proprio questo tipo di leggende che bisognerebbe sfatare. Questa è la leggenda pericolosa, perché ha un peso determinante sulla lettura dell'opera artistica di Modigliani. Non quella della sua vita, una leggenda alla quale siamo attaccati da un trasporto umano, quasi per un fratello troppo generoso e imprudente».
Allora lei finisce per salvare, o per accettare, il mito di Modigliani?
«Modigliani fu e resta, a suo modo, un eroe della bohème parigina degli Anni dieci. Questo egli volle e seppe essere con tutte le sue forze. E non c'è dubbio che Modigliani le sue forze le adoperò più per vivere che per dipingere. Io dico che non si incarna un mito casualmente. Ci vogliono le qualità per incarnarlo e un lavoro per condurlo a termine. Parigi era piena di artisti in miseria, distrutti dalle droghe, dall'alcool, dalla fame, dalle malattie. E il mito di Modigliani operava già, lui vivo, prima di essere conosciuto e stimato come pittore. Egli fu uno dei notabili di quella Parigi, proprio perché possedeva la dimensione umana capace di incarnare un mito».
Cosa aveva di speciale, Modigliani, per diventare un personaggio di quella Parigi che ci ha dato Picasso, Braque, Chagall, Rouault e che ha ospitato con indifferenza De Chirico?
«Aveva la cultura e la bellezza. Lo charme. Portava il profumo di una sensualità rinascimentale tutta toscana. La Toscana raffinata ed elegante, poetica, del Botticelli, non quella scabra, asciutta, del Masaccio...»
E forse perché ebbe una vita breve. Perché dilapidò la sua ricchezza artistica proprio come un eroe della bohème. E dello scandalo livornese del 1984, cosa dice?
«Povero Modigliani. Livorno non gli ha voluto bene».

di ALDO SANTINI