di Silvano Filippelli, da "Rivista di Livorno", anno IV, luglio-agosto 1954
Scrive Jean Cocteau del suo amico Modì: Il resulte de cette indifference à la legende que la legende s'est faite sans che rien ne la documente.... La leggenda ha isolato l'uomo, lo ha definitivamente assegnato alla terra di Francia, godendo del contributo offerto dalla critica e dai biografi, quasi mai preoccupati di stabilire un men che minimo rapporto tra Modì e Modigliani, tra il "montparnò" e l'allievo di Guglielmo Micheli. Tutti sanno delle sue peregrinazioni da Montmartre a Montparnasse, dei suoi accesi contatti con le fumose "boites" nelle quali lasciava, in pegno dei pernot non solvibili, le tele con i colli lunghi. Le sue invocazioni a Livorno, riferite sulla stampa dagli amici, acquistavano un falso tono di richiamo romantico, accentuando l'ipotesi che tra Livorno e Amedeo Modigliani non corressero fatti personali. Eppure chi analizzi con minore intransigenza la pasta pittorica dei dipinti di Modigliani, senza cioè il preconcetto di isolarla nel limbo dei linguaggi "autonomi", cercando anzi di allungare il tiro in una prospettiva che includa dialetticamente tutte le inevitabili componenti del suo linguaggio, non potrà tardare a riconoscervi inconfondibili caratteri toscani, se non addirittura fattoriani, e che Modigliani aveva avuto modo di acquistare con indiretti contatti alla scuola del suo primo maestro Guglielmo Micheli.
Come vedremo non mancarono accostamenti tra lui e Fattori e ci sembra più plausibile accreditare tale derivazione, del resto documentata e ragionevole date le circostanze, piuttosto che correre dietro alla favola di un Modigliani ispirato ai "senesi", favola del tutto simile, ed altrettanto gratuita, di un Fattori che avrebbe "scomodato" Giotto, Masaccio e l'Angelico a fargli da predecessori. Mi è sembrato quindi che sarebbe stato cosa utile avvicinare quelli, tra gli amici di Dedo, che conservano, meglio degli altri, un ricordo di lui. Ciò per far luce sui primi anni della sua vita e dar l'esca, almeno lo spero, a chi se la sentisse di intraprendere con una indagine più scientifica lo studio del periodo livornese che la critica ufficiale ha sinora tenuto in sottordine quasi a mantenere al mito Modigliani il crisma parigino così bene attribuito dalla interpretazione mondana e volutamente "engagée" a questo pittore "maudit" del XX secolo. Al secondo piano di un palazzo sugli Scali Manzoni, precisamente al n. 5, vive la signorina Gina Maria Micheli, figlia di Guglielmo Micheli, il maestro di Amedeo Modigliani. Ho fissato l'appuntamento per telefono e subito la signorina si è mostrata entusiasta di ricevermi e cogliere una nuova occasione per parlare del padre. Gina Maria Micheli è la secondogenita e dopo la morte del fratello Alberto avvenuta nel 1907 e quella della madre è rimasta sola a custodire la memoria del prof. Micheli: è una gentile figura di donna la cui signorilità è temperata da una cordialità domestica, pronta a venarsi di malinconia al ricordo delle cose passate.
Mi accoglie in una alta stanza quadrata tappezzata di juta e di quadri. Sono tutti firmati Micheli, eccetto un piccolo bozzetto di pala d'altare che funziona da immagine sacra su un letto alla turca; potrebbe essere un Pollastrini. La signorina Gina Maria, attraverso l'amore filiale, manifesta un sincero accorato amore per la tradizione pittorica livornese e non soltanto. Una vera e propria sorgente di informazioni, tutte documentate da lettere, carte, fotografie, dagherrotipi, lastre. Siamo al centro della sala, un soggiorno camera da letto, salotto da ricevere; ci divide un tavolinetto di mogano su cui sono stese tutte le curiosità che farebbero lieto uno storico: le lettere del Guerrazzi, sono quelle che mi mostra con maggiore soddisfazione. Ma è di Modigliani che dobbiamo parlare. Non ricorda molto. Mi porge una preziosa foto in cui Fattori siede con alle spalle un ragazzino. Proprio Modigliani. Fattori aveva un cane sulle ginocchia, che al momento che la macchina ha scattato si è slanciato fuori del quadro. Questo documento testimonia quel clima di affetti in cui Amedeo Modigliani aveva trovato posto. Modigliani aveva avuto il tifo, entrò in salotto e la mamma Micheli, la moglie del maestro, gli andò incontro accarezzandogli la testa rasata dicendo: Che bella testina t'è venuta, Amedeo. Di questi tempi è la foto di cui esiste un facsimile, ma senza Modigliani. Avendo saputo di qualche spiegabile insofferenza di Amedeo per la disciplina artistica di Micheli, domando alla mia ospite se sa nulla in proposito. Non ricorda: se mai tra Micheli e Lloyd, un po' come accadde tra Fattori e Nomellini. Lo studio di Micheli, frequentato da Lloyd, Romiti, Martinelli, Caprini, Tofani, Baracchini Caputi, e da Amedeo Modigliani, era un grande stanzone a terreno nella Villa Baciocchi; tre grandi finestre ed un portino che dava sulla strada ne interrompevano le pareti; una parte di esso era adibita a salottino. Modigliani continuò a frequentare il maestro anche dopo che questo studio fu abbandonato e la famiglia si trasferì in Via Verdi. Guglielmo Micheli era lieto ogni qualvolta i suoi discepoli riscuotevano dei successi, ma è chiaro che della nuova maniera di Modigliani non fosse troppo convinto. A questo punto la mia interlocutrice mi mostra la monografia di Enrico Somarè dedicata a Guglielmo Micheli. A pagina cinquanta, dopo l'elenco delle opere di Micheli, si legge:"Discepoli: ebbe tra i suoi discepoli Amedeo Modigliani". E poi aggiunti a penna i nomi degli altri. Si continua a parlare del padre, di un ritratto di Fattori che il Comune di Livorno non volle acquistare, nonostante che il maestro e l'allievo avessero più volte manifestato il desiderio che rimanesse in una pinacoteca livornese. Oggi fa parte della Galleria del Comune di Roma. Si torna a parlare di Modigliani e la signorina Gina Maria ricorda l'assiduità, l'educazione ed il rispetto del giovane allievo. Il congedo avviene con una esortazione a occuparsi del recente passato pittorico livornese, esortazione che viene accolta. Meno convinto il consenso ad una sua proposta: Offrano tutti gli artisti viventi, vecchi e giovani, un'opera al Museo Civico, seguendo l'esempio di Micheli che, tramite la generosità della figlia, si trova largamente rappresentato nella Pinacoteca labronica.
Gino Romiti è stato uno tra i cari amici di Dedo. Romiti è forse il più fedele seguace di Micheli, anche se poi sconfinò nella cerulea iridescenza dei fondi marini, affogandovi la calligrafia dei salici od il minuto mosaico delle tamerici ardenzine. Romiti ha lo studio in Via Ricasoli; se gli telefoni ti rispondono degli avvocati. È quindi preferibile andarlo a trovare di persona. È l'unico ad avere mantenuto uno studio che prolunga, anche se in maniera minore, la fisionomia del cenacolo. Romiti è orgoglioso di essere stato l'amico di Modì. Ricorda il babbo e la mamma, semplici e signorili, una levatura sociale di primo ordine. Ricorda i tempi della Scuola Micheli e quelli immediatamente successivi in cui Modigliani, Benvenuto Benvenuti, Lando Bartoli, Aristide Sommati si ritrovavano nello studio suo (come testimonia la nota foto pubblicata da Gastone Razzaguta nel suo Virtù di artisti labronici). La foto era stata scattata in un ambiente in Via della Scala, laddove prima della guerra c'era la tipografia Debatte. Modigliani si distingueva tra gli altri per il suo candore, una timidezza che lo faceva arrossire per un nonnulla.
Romiti mi conferma la sia pure mediata influenza fattoriana sulla scuola di Micheli. Spesso Fattori, venendo a Livorno, si faceva precedere da una cartolina con la quale pregava Romiti di prenotargli una camera, ma che non costasse più di trenta lire il mese, se mai si potevan prevedere 10 lire alla donna di servizio. Quando Fattori era a Livorno aveva contatti con tutti, e Modigliani lo rispettava ed ammirava moltissimo. Se ci fu qualcuno che Modigliani non vide di buon occhio, questi fu Nomellini "pittura troppo decorativa" per lui. Alla scuola di Micheli gli allievi trattavano ogni genere di soggetti: nudo, paesaggi, marina. E Modigliani seguiva con gli altri rispettando le norme impartitegli dal maestro. Se mai era nei nudi che l'allievo esprimeva una sua autonomia, accentuandovi il gusto della linea con una sensibilità squisitissima. Razzaguta ricorda nel suo libro che Modì tornò a Livorno per amore della torta di ceci, ma prima che partisse per Parigi la mamma di Romiti aveva saputo soddisfare la sua ghiottoneria preparandogli una sera un gustoso piatto di gamberi fritti. Domando a Romiti che ne pensa dell'uomo, ora che mi ha parlato del pittore. Seguitando a dipingere aggiunge: A dire il vero studiò due anni al Liceo, poi si dette alla pittura, ma difficilmente si lasciò scappare qualche idea sulla vita: era assente dalla vita sociale, infantile e riservato (per molti aspetti ricorda il povero Gambogi). Vestiva trascurato, ma fu sempre squisitamente onesto e deciso a seguire il sentimento più che un programma preconcetto. Tornando da Parigi lo vedemmo cambiato ma non in questo. Insisto sulla cultura di Modigliani; avrà pure letto qualcosa. Romiti stacca il pennello dal bozzetto in fabbricazione ed aggiunge: Micheli, oltre alle lezioni di disegno e di pittura, assegnava ai suoi allievi temi di storia dell'arte. Modigliani scriveva spesso sui Raffaelliti; ricordo un saggio scritto molto bene. Una lettera che Romiti mi mostra testimonia l'interesse che Modigliani ebbe già da giovinetto per la scultura. Era stato a Pietrasanta da certi amici di suo padre. Aveva in mente un grande quadro, forse rimasto solo nel limbo delle intenzioni ma di cui parlava spesso, il titolo avrebbe dovuto essere ll canto del Cigno. Forse non fu solo chimera e lo distrusse. Mi accorgo che Romiti ha vuotato com-pletamente il sacco. Ma prima di salutarlo egli aggiunge: Fu anche a Napoli e mi pare che laggiù si incontrasse con Filippo Palizzi (o Domenico Morelli?) ma non è certo. Lo trascrivo a titolo di curiosità, e lui stesso mi consiglia di esser cauto. La lastra dell'ormai nota foto del gruppo scattata nello studio di Romiti è attualmente in mano di Aristide Sommati. In essa Sommati è quel tipo mascagnano in piedi dietro il pinzuto Romiti e che ostenta con disinvoltura un abbondante papillon scuro. Il colloquio con Sommati mi permette di accertare alcuni fatti che potranno far luce sulla identità di un quadro e l'ambiente della "scapigliatura" pittorica livornese.
Aristide Sommati non dipinge più, ma conserva gelosamente i ricordi di quando, giovanissimo, si associò alla "branca" deciso a darsi all'arte. Sommati si sente uno sconfitto ma trattiene la dignità di quei giorni, difende la purezza e la buona fede che li animava: Eravamo convinti che l'arte era una cosa seria ed eravamo umili, timorosi, restii a porre in mostra i nostri tentativi. Egli abita oggi in una casa all'interno di un giardino in Corso Mazzini. Ha pure lui una sua piccola "tana", in cui si chiude, per concedersi il naturale sfogo di un rimprovero, quello di aver lasciato l'arte per fare il fornaio. Vuole che gli dia del tu. Non ci riesco. La "tana" è ingombra di tavoli, scrivanie, armadi e quadri. Molti sono suoi: ed in buona parte di essi sono ben visibili interpolazioni divisionistiche ed in certi casi "pointillistiche". Sommati aveva dei bei quadri di Modigliani ma, uno ad uno, se ne è disfatto. E ne prova dispiacere. Come fu che si unirono e decisero di lavorare assieme? Sommati si incontrò con Gino Romiti nella sede del Partito Socialista. Poi vennero Lloyd, Benvenuti (quest'ultimo conosciuto alla Scuola d'arti e mestieri). Il Partito Socialista aveva allora sede agli Scali del Corso. Modigliani venne dopo. Sommati lo ricorda come "decadentista", "ruotante attorno alla stella Baudelaire", conferma le sue predilezioni preraffaellite e la parsimonia nel prendere i pennelli in mano. Si riunivano quasi tutte le domeniche nello studio di Romiti e facevano del nudo. Che la famiglia Modigliani conducesse una vita di decoro borghese glielo prova il fatto curioso che egli ricorda come fosse ora: La prima volta che assaggiai il the fu in casa di Modigliani e, così alla prima, mi fece l'effetto della camomilla. Qui terminano i ricordi che Sommati ha potuto confidarmi con l'aria rassegnata di chi getta il carico da una nave che sta affondando. Mi mostra dei ritagli di giornali che parlano di Modigliani e della morte di Zborowsky e, nel cercarli, vengon fuori i disegni di meccanica e di geometria descrittiva di Mario Puccini. Ma Sommati non si ferma qui. Mi ricorda che il ritratto del figlio di Micheli, dipinto in Livorno e che figurò nella Mostra dei 50 anni di pittura Toscana a Palazzo Strozzi e alla retrospettiva della Quadriennale ordinata da Enzo Carli, era di sua proprietà. Cosi come La stradina, ceduta al Comune di Livorno ed ora facente parte del Museo Civico Giovanni Fattori.
L'autenticità di quest'ultima è provata anche da quanto scrive Llewelyn Lloyd nel suo Tempi andati. Andavamo a dipingere insieme (con Modigliani n.d r.) all'aria aperta, ma l'unica cosa che gli vidi dipingere a fianco a me fu una strada di campagna in quel di Salviano al doposole, d'inverno. Dipingendo a fianco si faceva il motivo pressoché dallo stesso punto di vista (pag. 22). Pochi anni fa a una mostra sindacale a Firenze ci fu un'altra piccola mostra di Dedo Modigliani, diventato celebre a Parigi. In quella mostra erano tre o quattro opere: rividi quel dipinto a Salviano, imprestato da un fornaio livornese pittore fallito del nostro gruppo. Seppi che il fornaio l'aveva imprestato con garanzia di assicurazione da parte dell'Esposizione per molte e molte migliaia, di lire (pag. 24). Prima di chiudere queste carte Sommati tiene a dichiararmi di non prendersela per quel "fallito" (la carità di amicizia non ha certo abbondato in Lloyd) ma piuttosto per un brano, sempre di Tempi andati ed in cui l'autore lo scambia addirittura con un altro: Il fornaio Sommati aveva la fisima di far quadretti di alta precisione come sotto l'incubo di visioni spiritiche. Era un giovanetto magro, affetto da manie macabre, amava d'andare nei camposanti di notte a ricevere paurose impressioni e ne venivano fuori fantasmi, civette, teschi, scheletri e pipistrelli su dei foglietti di carta acquerellati (pag. 40).
E lo trascrivo volentieri per dare a Cesare quel che è di Cesare, perché sicuramente queste manie macabre non si addicevano ad Aristide Sommati giovin pittore "oggi in tutt'altre faccende affaccendato". Manlio Martinelli è l'araba fenice dei pittori livornesi viventi; è come il trucco, "c'è ma non si vede". Vive da molti anni chiuso stoppinato nel suo studio-camera in cui nessuno è potuto mai entrare, neppure i più stretti parenti che lo ospitano. Egli lavora per anni ad uno stesso quadro e non esiste barba d'uomo capace di sdoganarglielo anche se è pronto a non discutere sul prezzo. Per questo Martinelli, voglio dire per questa sua misantropia, mantiene dei precisi ricordi, non avendo occasione di disperderli a contatto con un mondo che quasi mai si incontra con lui. Nomi, date, aneddoti sono sicuri e nel depositarli all'interlocutore Martinelli non pone alcun dubbio sulla loro attendibilità. Manlio Martinelli mi ha ricevuto nel retrobottega del negozio di cuoi e pellami di proprietà di suo fratello, in Corso Amedeo. Mi prega di sedermi ma non vi sono sedie. Sai, lo studio è tutto ingombro; altrimenti..., io faccio finta di crederci. È venuta da me una signora americana in cerca di notizie sul periodo giovanile di Modigliani. Immagino che essa abbia fatto la mia stessa fine: "Intervista in un retrobottega". Martinelli fu l'ultimo a recarsi da Micheli (nel Giugno del 1899); pare che Modigliani vi si trovasse già da una ventina di giorni. Egli conferma che lo studio di Micheli era nella Villa Baciocchi, in Via delle Siepi; c'è sempre il portino di fronte ad un calzolaio. L'abitazione e lo studio erano a terreno. Si passa a dei dettagli interessanti: quando Martinelli capitò da Micheli, Dedo stava disegnando a brace su carta intelaiata una natura morta, un vaso sullo sfondo di un panneggio; la tecnica di questi disegni consisteva spesso nel bruciare a metà la carta usando l'affumicazione come mezza tinta. Fattori vide il disegno e gli piacque molto.
Martinelli rammenta poi, come altri, di avere visto in fabbricazione il noto quadro del "ragazzo seduto" per il quale funse da modello Albertino, il figlio di Micheli. E ciò quando la scuola ebbe sede per poco tempo in Piazza Goldoni. A questo punto Martinelli passa, con ordine, all'uomo Modigliani. Dedo era decisamente un temperamento erotico e la lettura di Nietzsche (Così parlò Zarathustra) e di D'Annunzio (Le vergini delle rocce) glielo confermano indirettamente. Persino il bonario Micheli lo chiamava scherzosamente il "superuomo". Il padre di Dedo invece preferiva, riferendosi al suo amore pittorico, chiamarlo scherzosamente "Botticelli". Il giovane artista però correva diritto al suo fine con impegno e decisa fermezza non trascurando di insistere nel frattempo sul tasto del sesso. Aveva l'intenzione di conquistare la serva di casa ed un giorno, rivolgendosi a Martinelli, gli disse strizzandogli l'occhio: Te lo faresti attaccare un bottone ai pantaloni da lei? Il mio interlocutore, contrariamente a ciò che si potrebbe pensare per la sua naturale ritrosia a incontrarsi con il resto del mondo, ha ormai preso quota. Non lo disturbano più neppure gli attraversamenti del retrobottega da parte di estranei, e prosegue compiaciuto. Dopo aver seguito con gli altri il buon Micheli, come fanno i pulcini con la chioccia, a dipingere la neve, il porto e l'andana, Martinelli e Modigliani cominciarono ad andarsene soli. E furono veramente dei bei tempi quelli, come quando, tutti intenti a dipingere una veduta dell'Ardenza presso il ponte sotto il cavalcavia ferroviario, un ragazzo principiò a lanciar loro dei sassi mirando con sorprendente precisione alla cassetta dei colori tanto che dovettero ripararsi con tutte le suppellettili sotto l'arcate; o come quando, aggirandosi per le campagne del livornese con la cassetta dei colori a tracolla, la coppia dei giovin pittori si sentì domandare da una massaia se vendevano pettini. Tutto qui.
Martinelli è a mia disposizione, ma non ricorda altro. Da pittore può dire che la maniera di Modigliani era "sciatta" rispetto sopratutto a quella calligrafica del maestro. Ma ciò è lapalissiano, a giudicare da quello che dipinse Modì a Parigi. Si trattava dei primi accenni di una ribellione senza la quale non sarebbe stato possibile giungere all'ordine nuovo della maniera oggi ufficialmente documentata dalle costose monografie dedicate a Modì. Renato Natali non ha più lo studio in Piazza Cavour; lavora a domicilio. Ma è sempre quel pittore che, giostrandosi con le pressanti richieste dei suoi "aficionados", sa mantenere quel certo tono di spregiudicatezza con la quale si conciliano stranamente la sua riservatezza ed un'aria domestica da livornese in vacanza. È difficile distoglierlo dal cavalletto su cui a getto continuo egli produce i "veglioni" dai mille colori o i notturni popolareschi. È difficile trargli fuori una parola. È così che mi è parsa di già una fortuna insperata quella che mi ha permesso di venire in possesso di due paginette dattiloscritte in cui Natali rende omaggio alla figura del "suo caro Dedo". In testa trovi scritto: "Amedeo Modigliani" (Dedo Modì) Livorno 1884 - Parigi 1920. Natali lo ricorda in tutti i periodi ed in tutti gli anni, coi pittori amici livornesi, innamorati come lui del mare e dell'Ardenza e di Livorno. Lo rivedo a Firenze, a Venezia, a Parigi, solo nei Musei e nelle Gallerie, osservare e contemplare, scontroso ad ogni minimo disturbo, solo intento ad impregnarsi di gioia per poi comunicarla col suo entusiasmo nelle sue tele. Lo vedo ancora con il suo bel volto pallido, con la barba rasata che gli dava il color plumbeo alla faccia, con folti capelli che dopo volle tener rasati, con la testa alta, gli occhi luminosi che non si stancavano mai di scrutare, la bocca chiusa con segno sprezzante, niente vero che la sua arte sia parte di eccitazione di bere, beveva come tutti gli uomini e data la sua delicata natura di artista gli dava ebrezza e conforto. E Natali prosegue: La famiglia Modigliani, di razza nobile e principi sani e borghesi, rispecchiava l'epoca sentimentale e romantica del passato secolo [Ottocento n.dr.], tanto è vero che suo padre fervente monarchico dava ai figli i nomi dei Savoia, cioè Vittorio Emanuele, Amedeo, Margherita. Dopo, però, suo fratello avvocato non mancava di evolversi aderendo ai principi di una più ariosa libertà sociale. Assecondato dai suoi e sopratutto dalla madre, donna coltissima ed intellettuale, amò e seguì il suo caro, comprendendolo e mai gli mancò moralmente e materialmente. Aggiunte a penna, forse solo nella copia consegnatami dallo stesso Natali frettolosamente, trovo alcune notazioni che si riferiscono ai temi del vagabondaggio Modìglianesco: le vie equivoche della vecchia Livorno; A Parigi (1914) lo trovai, non ancora sposato; viveva in un vecchio giardino dentro una serra abbandonata. Era l'epoca delle sue sculture di pietra, inizio della sua arte che poi trasmise nella pittura. Una intervista ideale con Gastone Razzaguta non potrà che far piacere all'anima eletta di questo affettuoso biografo dell'arte labronica. A lui questa deve la più appassionata vissuta documentazione. Per il compianto nostro amico Razzaguta sarà come se, a dispetto del tempo, gli rinforzassimo gli ormeggi con i quali egli volle tenersi legato, assieme a quelli della "branca», lungo le calate al consolante riparo del Molo delle Arti. La fortuna di rintracciare questi suoi ricordi su Modigliani ci offre una riprova di più della vivacità e della esattezza delle immagini che Razzaguta teneva impresse del mondo e degli amici con cui aveva vissuto. Ricordi trascritti prima col cuore che con il cervello ma tali che in essi l'aneddoto non si esaurisce nel "piacevole", sibbene puntella i giudizi sottintesi e che sono di incondizionata stima ed ammirazione per l'arte di Dedo. ...Ricordo che in un lontano pomeriggio d'estate (1915), mentre al Caffè Bardi mangiavo un amaretto, vidi entrare un evaso con un par di spardegne in mano. Poi, siccome non cercava rifugio ma camminava piuttosto lentamente, cambiai opinione, riconoscendo che si trattava invece d'uno regolarmente rilasciato da qualche patria galera. Camminava infatti tranquillissimo e a testa alta, su delle spardegne nuove fiammanti sopra le quali ricadevano dei pantaloni di rigatino legati alla vita con una cordicella, e più su, una camicioletta scollata, e una giacchetta di tela, il tutto tenuto da un corpo qualunque con una testa rapata coll'alzo a zero e rasata male, di quelle cotenne color cenerino che sembra abbian sempre la barba lunga. Le cose però si complicarono per me e peri presenti incuriositi, quando quel tale, con vocetta stridula e imperiosa, chiese: "C'è Romiti? c'è Natali?...': La domanda rimbalzò da uno all'al-tro e ritornò con la risposta: "No". Non c'erano. Allora la solita vocetta ora assai spazientita richiese: "Ma non ci sono pittori?': Puntarono il dito su di me, e lui allora mi squadrò soffermandosi sui miei capelli lunghi. lo non aveva mai visto lui e lui non aveva mai visto me; ma lui non si preoccupò per questa cosa da niente, rivolgendomi anzi un imprevedibile quanto cordiale invito: "Si beve?» - E chi paga? volevo rispondergli. Ma lui aveva già ordinato: "Due Pernò'. E col passo felpato delle sue spardegne mi piantò in asso andando verso la sala dove c'erano le pitture. Ma chi è? lo frattanto, avevo cambiato un'altra opinione: no, non era né un evaso né un rilasciato. Intanto la richiesta del "Pernò" aveva messo tutti in curiosità non sapendo di cosa si trattasse; ma il "Sor Ugo" si era già allontanato, ritornando poco dopo con due bicchieri alti e una bottiglia impolverata che avrebbe potuto raccontare la storia dei Caffè dalle origini. E fu il "Sor Ugo" che, fra la generale stupefazione, preparò i due "Pernò" con il filtro di zucchero. Il rapato intanto era riapparito, e mentre le gocce dell'acqua lentamente cadevano nel liquore verdolino affumicandolo, come se nulla fosse ripeté: "C'è Romiti?... C'è Natali...» E poi a me; "Si beve?". Bevemmo quella miscela torba; io per la prima volta; lui non per l'ultima. Non la trovai malvagia, tanto più che la pagai doverosamente io. Alquanto rifocillato il compagno di bevuta, diventando espansivo, mi chiese allora: "Ma chi sei?': Stavo per accontentarlo quando incalzò: "Come stai?", e quasi m'abbracciò. Poi si distaccò da me e se ne andò all'inglese, con un par di spardegne ai piedi e un altro paio in mano tenute ciondoloni per le stringhe. Arrivato sulla porta tirò fuori un berretto fantasia al quale era stata strappata la visiera, se lo mise sulla testa rapata, e si allontanò. Ma chi è? Ormai senza più esitazioni potei rispondere: "È Modigliani': "Senza barba': (Alludendo al fratello "Onorevole" di Modigliani, "Memè',' dal barbone mosaico). "Ma lui è il fratello pittore, viene da Parigi...". "Lo scalcagnato Dedo" era tuttavia un giovane pulito, ma come si è detto aveva una maledetta aria di scappato dalla galera. Poi c'era aria di guerra e dappertutto si vedeva l'insidia. Ma "Dedo" pareva chi ci si divertisse a dare nell'occhio con quel suo vestire senza colletto, allora che invece quasi tutti portavano i «polacconi», anche d'agosto. Precorreva i tempi anche nella moda, con quel suo abbigliamento «fa Capri...». Girava dunque per le strade della sua Livorno, in piena libertà, l'amico. E si strafotteva di quello che la gente pensava di lui. Anzi veramente non pensava affatto a strafottersi della gente, per la matematica ragione che la gente non esisteva, per lui. In altri mondi conturbati o sereni vagava il suo pensiero e semmai soltanto tornava sulla Terra per ripetere agli uomini:"Si beve?". Ora avvenne che dài dài un bel giorno te lo "fermano"verso l'Ardenza. Non sapevano chi fosse, ma lui capì a volo chi erano quei due e glielo disse con quel suo parlare "foresto" e con lampante disprezzo: "Vi conosco..." - "Ci conosci?...". Sì, li aveva proprio riconosciuti: erano due inutilmente in borghese, uguali a quelli parigini, uguali a quelli sotto ogni punto di stella. E come sotto ogni punto di stella quei due immutabili lo buttarono immutabilmente "dentro" per la stessa immutabile ragione del "tipo sospetto". "Dedo" si divertì a quell'avventura e stette in gattabuia finché gli piacque di fare il Silvio Pellico. Colla sua fervida immaginazione costruì altissimi castelli nelle nuvole e si sentì vittima, martire, perseguitato, e trovò che era bello soffrire ingiustamente. Passò, secondo lui, un'eternità - ed erano invece poche veloci ore terrene - che avvertì il bisogno di ripetere ai mortali la sua domanda. Ma gli diedero dell'acqua. Ciò l'offese oltre misura e allora disse chi era: Sono il fratello dell'On. Modigliani. Ah, sì?. E lo buttarono fuori. Ma era l'ora, perche la vocetta di "Dedo" ripeteva: Come ci si stava male!... Come ci si stava male! ...Modigliani ci meravigliò non poco quando ci disse che era diventato anche scultore. Scultore? - Sicuro, scultore. E tirò fuori di tasca delle fotografie che riproducevano appunto delle sculture. Erano teste allungate, con certi nasoni dritti e lunghi, con un'espressione chiusa e triste. Alcune sembravano frullate, e tutte avevano colli come le teste, lunghi e tondi. "Dedo" n'era entusiasta, e se le mirava con compiacenza. Ma noialtri invece non ci si capiva un bel niente. Ci sembravano roba di selvaggi, e non si sbagliava. Erano infatti generate dalla voga per l'arte negroide che aveva preso gli snobisti di Parigi, e che aveva preso anche Modigliani. Su codeste pietre sbozzate si è scritto in seguito a briglia sciolta, dicendone mirabilia; ma non è certo in quelle che si deve andare a cercare il miglior Modigliani, anche s'egli veramente vi trasfuse una parte sincera della sua foga d'artista. Certo che in quel tempo egli era invasato da quella scultura primitiva. Mi sembra ancora di vederlo, con quelle fotografie in mano, a rimirarle e invitarci a rimirarle. Se poco s'interessava e stimava l'arte degli altri, se poco, per esempio, stimava Picasso nelle sue trasformazioni, poco ci parlava dell'arte sua di pittore, degli sviluppi che aveva avuto lontano da noi, di quello che sperava e sognava per l'avvenire. Egli era molto riservato su questo; ma per quelle sculture, era anche troppo aperto. Quelle fotografie che aveva sempre in mano, e con ciò aumentava il suo entusiasmo e la sua tristezza. Un giorno cominciò a dirci che aveva bisogno d'un grande locale per lavorare da scultore. "Mi ci vuole una grande stanza... molto grande... molto...': Eppoi gli occorrevano delle pietre, di quelle che ci si lastrica le strade. "Proprio di quelle di strada..., di quelle lì...': Pensammo a una delle sue volubili idee. Invece egli insisteva e insisteva, finché ci mettemmo in moto, riuscendo a farlo felice. "Dedo" poté usufruire d'uno stanzone in mercato e di alcune pietre di strada, proprio di strada: erano usate... "Dedo" che era fra noi come un fantasma che apparisce e sparisce, da quel giorno ch'ebbe lo stanzone e le pietre, ci sparì di sotto gli occhi e non lo si rivide per qualche tempo. Cosa poi combinasse in quello stanzone con quelle pietre, nessuno di noi lo seppe mai. Mai ci portò lassù, mai si vide lo stanzone e mai le pietre. Chissà cosa alma-naccò in quei giorni. Ma certo qualcosa deve aver combinato. Perché, quando decise di tornare a Parigi, ci chiese dove avrebbe potuto sistemare quelle sue sculture che erano rimaste nello stanzone. Esistevano, dunque? E chi lo sa? Modigliani le portò con sé, oppure seguì il nostro amichevole e sbrigativo consiglio. Gli si rispose infatti, concordemen-te: "Buttale nel fosso...': Che rivelazione è mai questa. Quasi quasi converrebbe noleggiare una draga e dragare tutti i "fossi" che circondano la Città di Livorno! In questi ultimi anni non sono mancate spiacevoli illazioni di certa stampa irresponsabile pronta, pur di fare "del colore", a deformare la verità, seguendo la pista del Modigliani brutale, vittima del disinteresse e della indifferenza della sua "ricca famiglia borghese". Contro una tale forzatura dei fatti è insorta una buona parte di coloro che ebbero diretta o indiretta testimonianza del contrario. Cosi la signora Elisa Franco Manasse su "Il Ponte" (Febbraio 1951), Anselmo Bucci su "Il Corriere della sera" (1 Giugno 1951), Aldo Garosci su "Il mondo" (7 Aprile 1951). A questo proposito Bucci scriveva tra l'altro: ...Si dolse di quella fama di fame che i suoi migliori amici gli facevano intorno. Protestò in modo reciso. E ad un tratto - lo sono ebreo lo sai - dichiarò -. Non ci avevo mai pensato. - È vero, in Italia non c'è la question juive. Sono ebreo e tu sai lo spirito di famiglia che c'è tra noi! lo posso dire di non essere mai stato in miseria. La mia famiglia mi ha sempre aiutato. Magari con un vaglia di cinque franchi (i franchi oro di allora) ma non mi ha abbandonato mai. La conferma di tutto questo mi è venuta poi dalla viva voce di Vera Modigliani, la signora Vera, moglie del compianto Emanuele. Essa non conobbe Dedo che durante un breve soggiorno estivo di luí a Livorno prima di ripartire per Parigi. Emanuele soleva rispondere a chi gli chiedesse se Amedeo era suo fratello: C'etait mon grand cadet. E Amedeo contraccambiava la stima della cognata con un appellativo significativo: la cognatissima. Un affettuoso superlativo, una prova di più della sincerità di affetti che coloriva i rapporti tra i membri della famiglia Modigliani. La signora ricorda i tratti nobilissimi di questo efebo, dal portamento elegante e la cui civetteria nel vestire sembrava anticipare la negleance di mezzo secolo dopo. Quell'estate fu veramente un'estate indimenticabile: ultima visione di questo giovane artista dalle cui mani uscivano con eleganza unica di movenze i disegni che lo avrebbero reso celebre. Prima di ripartire per Parigi la madre premurosa lo condusse in un magazzino di confezioni e Dedo ne uscì con un vestito nuovo fiammante; ma non soddisfatto della linea troppo rigida del taglio rimediò con una sforbiciata decisa alla cintura. Il deputato socialista Modigliani portò con sé negli anni d'esilio una foto del fratello ed una lettera della madre. La signora Vera trattiene a fatica le lacrime e soggiunge Sono andate perdute, però non posso dimenticare una frase con la quale si chiude degnamente e senza appello il triste episodio della calunnia: ... nel '98 abbiamo intrapreso tutti e due una battaglia, io per la salute di Dedo e tu per il tuo partito. E l'abbiamo persa tutti e due. Seguivano parole di speranza e di incoraggiamento.