Cat. della mostra di Modigliani presso l'Associazione fra gli amatori e i cultori delle arti figurative contemporanee, Milano, aprile-maggio 1946
II senso favoloso della vita di Amedeo Modigliani fa si che oggi si parli di lui con la medesima reverenza che accompagna il ricordo di van Gogh e di Gauguin. Certo i suoi casi furono romantici e romanzeschi. Giovane, affascinante di aspetto, questo livornese fu preso nel giro dell'ultima bohème parigina, soffrì la fame e conobbe le gioie fittizie dell'alcool, amò e fu amato molto per prestanza fisica e per brio d'intelligenza, lavorò lottando contro l'incomprensione universale, sicuro tuttavia della propria forza, ebbe amici fidati nonostante le sue sregolatezze e le sue ire, e finalmente, quando gli si apriva dinanzi un'esistenza meno tempestosa, il corpo logorato più non gli resse. Alla sua tragedia s'aggiunse quella della sconsolata compagna, sacrificatasi come una donna antica sul corpo dell'amato. Modigliani era appena scomparso dalla scena parigina e già il suo mito riempiva il mondo.
Tutto ciò, s'intende, non ha nulla a che fare con l'arte; la ragione della sua grandezza sta nelle opere e soltanto in quelle. Quando nel 1906 Modigliani sbarcò a Parigi, aveva ventidue anni e la sua formazione artistica era, non compiuta, ma neppur principiata, nel senso che il suo sviluppo successivo non ebbe punto origine dalle poche e disperse prove del primissimo periodo italiano. A Livorno, da ragazzo, aveva avuto per maestro il Micheli, uno dei tanti epigoni minori del macchiaiolismo; aveva poi seguito, ma in modo tutt'altro che regolare, i corsi dell'Accademia di Venezia. Era stato molto amico di Oscar Ghiglia, insieme col quale aveva anche vissuto a Firenze fra il 1902 ed il 1903; e documento di questa amicizia, poi interrotta bruscamente, restano alcune lettere che rivelano nel giovinetto un sentimento nietschiano della vita ed una generosa febbre di lavoro. La vera carriera di Modigliani comincia a Parigi ed è segnata da due incontri — l'uno successivo all'altro — che ebbero effetti risolutivi contribuendo anzitutto ad immettere l'artista nelle correnti veramente vive ed a disancorarlo dall'educazione accademico-provinciale. Il primo di essi, ed il più importante, risulta dall'opera che mise in luce per la prima volta il suo nome: il Violoncellista, esposta agli Indipendenti del 1910 accanto a quel Mendicante livornese, unico frutto d'un breve soggiorno in Italia dell'anno avanti [sic]. Qui è palese l'insegnamento di Cézanne per la resa plastica e per l'istessa modulata materia pittorica, nella quale compaiono quelle tonalità rosse che poi s'accenderanno in modo inconfondibile ed inimitabile nei volti e nei nudi di Modigliani. Ma l'aver inteso la lezione di Cézanne, che i cubisti per altro andavano rielaborando in diverso modo proprio nel medesimo tempo, non lo portò al cézannismo; e del resto nello stesso Violoncellista non si stentano a riconoscere in germe i caratteri che segnarono poi la formula espressiva modiglianesca: da un lato il senso squisito e musicale della linea, dall'altro la funzione lirica del colore portato ad altissimo diapason. Il secondo incontro, mentre Modigliani rimaneva estraneo alle esperienze dei fauves e dei cubisti, fu quello dell'arte negra.
(A certe derivazioni minori si può accennare soltanto di volo: quella da Puvis de Chavannes, la cui Speranza cara a Gauguin ha ispirato chiaramente un disegno di nudo, quella da Toulouse-Lautrec, che taluno ha riconosciuto nella grafia di qualche altro foglio, come si può pensare ad un'influenza klimtiana nelle tele del 1908, Ritratto di Maud Abrantès e Nudo doloroso).
Nelle opere plastiche negre, apparse allora per la prima volta sul mercato parigino e che Picasso con la sua inquieta, implacabile e implacata curiosità aveva messo di moda, Modigliani ritrovò un'identità di esigenze architettoniche, provata dalla serie delle Cariatidi dipinte e disegnate, ma soprattutto imparò a tradurre la figura umana per ovuli e cilindri, ad imporle un'ieraticità enigmatica da idolo: in tal modo egli si differenziava daccapo dai cubisti. D'altra parte, proprio di quegli anni sono le sculture di Modigliani, in cui le influenze dell'arte africana sono più immediate e scoperte. Un critico francese, il Basler, è giunto specie dall'esame dei disegni ad affermare — arbitrariamente, a parere mio — che la vocazione vera di Modigliani fu quello dello scultore, non del pittore. Se neppur l'aspirazione a comporre opere plastiche, che, si può dire, non abbandonò mai l'artista, può giustificare un giudizio simile, è certo che queste allungatissime teste tratte direttamente dalla pietra al tempo in cui Modigliani divideva lo studio con Brancusi, rivelano un possesso pieno del mestiere e, ciò che ha ben altra importanza per quel che verrà dopo, un senso della forma letta nella sua elementarietà. Poi Modigliani rinunziò alla scultura: abbandono, dal 1912 in avanti [recte: 1913], cui dovettero contribuire le condizioni di vita, il vagabondare affannoso da uno studio all'altro, sempre sotto l'assillo della lotta quotidiana per l'esistenza, lo stesso accentuarsi delle sregolatezze. La fatalità lo riconduceva alla pittura ed a mezzo della pittura Modigliani doveva dire la sua parola più alta e compiuta.
Quel che divide in modo irrimediabile le espressioni pittoriche dell'impressionismo ortodosso dalle nostre, quel che rivela il mutamento radicale della concezione dell'arte e nello stesso tempo il tendere alla riconquista delle grandi regole architettoniche, sta nel bisogno di superare la realtà contingente per esprimerne il sostanziale valore. In questo senso l'arte di Modigliani è schiettamente moderna, ma, se è lecito il paragone, egli sta ai nuovi primitivi come un Simone Martini sta a Duccio, come un Botticelli sta a Masaccio. E ciò non soltanto per la funzione delle linea, dell'arabesco, che ha parte così preponderante nelle sue figurazioni pittori che; l'arte di Modigliani è un'arte raffinata all'estremo, portata agli ultimi limiti oltre i quali si è decisamente nel manierismo e nello stiliamo, è un punto d'arrivo, una conclusione ultima, non un punto di partenza suscettibile di ulteriori sviluppi. E questo va detto specie per le opere dell'ultimo periodo, che sono i dipinti in cui il pittore ha raggiunto la massima trasfigurazione dei suoi modelli, rinunziando a quelli che erano i resti, vitali ed acutissimi tuttavia, d'un accento realistico. Trasfigurazione secondo un procedere per ovuli e cilindri: gli ovuli dei volti allungati che s'inclinano sui cilindri dei colli di cigno e daccapo si combinano con gli ovuli dei corpi in un ritmo armonioso. Trasfigurazione nelle accensioni coloristiche del tempo di mezzo, dominate dalla gran fiamma dei volti, o nelle orchestrazioni angeliche della produzione estrema. E come Modigliani riesce a far coesistere il giuoco della linea ed il giuoco del colore, apparentemente inconciliabili, così i motori della sua arte, altrettanto inconciliabili in apparenza, sono una sensualità viva e fonda ed un sentimento di malinconia disperata, se pur temperato da slanci di umana pietà. Essi si alternano via via nelle opere e si mescolano, componendo una galleria dagli accenti indimenticabili; così Modigliani rende la timida, profumata grazia dei fanciulli del popolo precocemente maturi e fa materia visibile lo spirito acuto di un intellettuale, compone nudi dove la carne palpita per il godimento erotico e il corpo femminile si agita nel moto sensuale, e suscita nel medesimo tempo immagini purissime di donne, angeli più che donne, tanto sono fragili e silenziose. Ma neppur una sensualità così dichiarata, così scoperta, dà mai nell'impudico, nel malato, nel perverso: qui il fermento dei sensi si realizza smaterializzandosi, in un atto di amore. Proprio in virtù di quest'atto di amore Modigliani si salva.
La sua tipologia può sembrare per più d'un aspetto simile a quella dei manieristi di tutti i tempi; sarebbe facile allineare qui una serie di richiami che s'affacciano di primo acchito alla mente di chi abbia una pur mediocre cultura figurativa, e parlar di senesi e di fiorentini, del Parmigianino e del Rosso, e — perché no ? — della Teti di ingriana memoria. Richiami ovvii addirittura: che tuttavia hanno un'efficacia soltanto apparente, perchè Modigliani si salva, proprio per quella sua adesione al mondo vivo che gli sta dattorno e che è chiuso solo in apparenza entro schemi intellettualistici preordinati. Arrivato fin quasi alle soglie dello stilismo, del gusto decorativo, egli s'arresta ed impone, come avviene di ogni artista veramente tale, la sua verità. Il periodo fecondo di Modigliani, come quello di van Gogh, è compreso nel volgere di pochi anni, quattro o cinque al massimo, dal 1915-16 al 1919: bruciarsi rapido, quasi nel presentimento della fine.
E per questo è difficile parlare di un'evoluzione vera e propria della sua arte: come impostazione — per prendere un esempio nelle opere esposte in questa mostra — L'Enfant gras o il Kisling del 1915 non differiscono sostanzialmente dalla Donna bruna del 1918 [autenticità dubbia] o dal l'Autoritratto del 1919. Si potrà parlare se mai di una rinunzia ai profili angolo si per una sempre maggiore effusione lirica, che si traduce in una musicalità più fiorita dell'arabesco lineare ed in un alleggerimento progressivo della materia, la quale da densa, ricca, succosa, si fa via via povera, magra, con un digradare modulato e sottile di rosa, di azzurrini, di gialli chiari, di grigi cilestrini; ed ancora si potrà notare l'abbandono della costruzione per grandi piani, come nel Paul Guillaume, per una resa formale dai passaggi delicati, la rinunzia ad espressioni di una vitalità prepotente, quasi brutale, come nella Margherita, per tendere ad un senso della bellezza addirittura angelica. Ma già negli anni 1915-16 Modigliani aveva scoperto sé stesso e trovato il suo linguaggio: e per questo le sue espressioni successive non scoprono incrinature e tentennamenti e la loro qualità raramente decade. Non mi sembra che la funzione espressiva del colore nella pittura di Modigliani sia stata finora riconosciuta secondo la sua importanza; eppure la sua parte è capitale. Ma dinanzi ai disegni, nei quali naturalmente entra in giuoco soltanto l'arabesco lineare, la critica non ha avuto dubbi fin dal primo momento. E qui va detto anzitutto che il carattere tipico del disegno di Modigliani sta nell'assenza assoluta o quasi di accenti chiaroscurali; la forma si definisce in virtù di una grafia sottile, uniforme, che specie nei fogli dell'ultimo tempo si snoda leggera con singolare purezza e con eleganza squisita, in una serie d'arabeschi ben ritmati: il suono d'un flauto. Ora questo procedere per profili, più da scultore che da pittore, rivela che l'esercizio della plastica, sebbene interrotto nel 1912 [recte: 1913], lasciò nondimeno tracce notevoli. Rari sono i fogli nei quali il segno si frantuma; ed anche quando Modigliani, massime intorno al 1916-17, si preoccupa di definire i volumi di una testa, lo fa come se abbordasse ancora la pietra compatta e ribelle, scheggiata scaglia a scaglia, anziché una materia così docile come la carta. E qui sta la ragione per la quale il senso solennemente architettonico della forma non abbandona mai Modigliani, che passa tuttavia per artista d'una raffinatezza morbosa; sotto l'apparente fragilità sta una costruzione talmente solida, da riallacciarsi ancora agli esempi cézanniani. Vissuto in un tempo che rimarrà fra i più fecondi di teorie estetiche nuove, Modigliani non si mescolò a nessuno dei movimenti che prosperarono attorno a lui e — anche questo va aggiunto — scomparve dalla scena parigina senza lasciare un solo scritto che tramandasse il proprio credo. La sua parte non fu quella del riformatore raziocinante e del resto la sua stessa personalità d'eccezione non poteva consentirglielo; ma le opere parlano e parleranno ancora per lui.
LAMBERTO VITALI